CANNES – Tre Mondiali di calcio, dal 2002 al 2010, le esaltate descrizioni dei gol dei cronisti sudamericani, sono lo sfondo di Dias of gracia, film d’esordio e fuori concorso del messicano Everardo Gout così denso e ipertrofico (per durata, 128’, ricchezza visiva e del plot, non ultimo per ambizioni) da far impallidire qualsiasi debutto dei registi di casa nostra. Come nel già trattato Miss Bala, anche Dias of gracia dipinge un quadro a dir poco drammatico del Messico: la violenza è la legge, la polizia è corrotta, le miserie umane così degradate da non lasciare speranze. Ma non è (solo) un film di denuncia. Dias of gracia (nei giorni di un Mondiale l'attenzione del mondo si concentra sul calcio e anche la malavita abbassa la guardia…) è un action movie di indubbie qualità e tecnicamente un “bigino” di tecnica cinematografica, con un gusto cromatico spiccato (si va dal bianco e nero a colori ipersaturi), uso ipnotico delle camere digitali, dissolvenze, inquadrature multiple, vertiginose sequenze di camera a mano e uso del rallenty che ricordano i maestri del film di Hong Kong, John Woo in testa. La vicenda inizia ai tempi del Mondiale 2002, con un poliziotto che terrorizza con modi piuttosto brutali due bimbi per dissuaderli dallo spaccio. Dal nome del più piccolo, Doroteo, capiamo che si tratta del ragazzo coinvolto, 8 anni più tardi, in un sequestro gestito da un insospettabile capomafia. In mezzo (Mondiale 2006) l’ascesa di quel poliziotto, che scopriamo coraggioso difensore dell’ordine in un Paese senza legge, oltre che innamorato marito e tenero padre. La sceneggiatura mescola abilmente, in un andirivieni temporale che non può non ricordare lo stile narrativo di Inarritu e Arriaga, storie e personaggi, in una descrizione ambientale – con le immagini sacre sempre sullo sfondo delle più truci vicende di malavita – che stringe il cuore. Nella seconda parte, granguignolesca forse oltre il necessario, siamo più dalle parti del western moderno che del film di denuncia, ma per essere un esordio questo film mantiene molto di quello che promette (ed è tanto). Impressionanti le scene aeree dei ghetti di Città del Messico, perfettamente in ruolo anche gli attori, dal protagonista (Tenoch Huerta) all’ultimo dei comprimari, alcuni dei quali sembrano cataloghi viventi di un tatuatore.
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